Pratiche commerciali scorrette
Con la previsione introdotta con l’art. 7 del d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. in l. 24.3.2012, n. 27, si è provveduto, attraverso un’integrazione dell’art. 19 decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), così come modificato dal Decreto legislativo 146 del 2007, ad estendere la tutela contro le pratiche commerciali scorrette alle relazioni tra «professionisti e microimprese», intese come «entità, società o associazioni che, a prescindere dalla forma giuridica, esercitano un’attività economica anche a titolo individuale o familiare, occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due milioni di euro.
Tale modifica legislativa può, a ben ragione, essere identificata come uno dei primi veri passi avanti posti in essere nella legislazione interna in tema di tutela della concorrenza tra soggetti economici.
Non v’è dubbio, infatti, che la “microimpresa“ non sia un consumatore bensì, a sua volta, un professionista.
Ed allora non può non essere considerato eccezionalmente importante aver rivoluzionato un sistema che, fino all’introduzione della modifica legislativa sopra ricordata, era incardinato unicamente intorno alla coppia di figure soggettive, professionista e consumatore.
A tale riguardo, occorre ricordare come con il termine professionista veniva indicato «qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista» (art. 18, del Codice del Consumo.), mentre consumatore era, invece «qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale».
Rimanevano pertanto prive di tutela tutte quelle condotte delle quali risultavano “vittime” le piccole imprese.
L’importanza di una siffatta novità può, peraltro, essere apprezzata in maniera ancor più tangibile avendo un quadro generale su ciò che possa essere considerata pratica commerciale scorretta e su quanto tali pratiche possano riverberarsi nella quotidianità della vita dei soggetti economici.
L’art. 18, lett. d) del Codice del Consumo definisce pratica commerciale “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”.
Ai sensi, poi, del successivo articolo 20, “una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento del consumatore medio”.
Al fine di determinare il suddetto comportamento potranno essere prese a riferimento
a) le disposizioni giuridiche, generali o specifiche del settore di attività considerato o delle modalità del suo esercizio (ad es. le norme sulle vendite a distanza);
b) le caratteristiche dell’attività esercitata dal professionista;
c) la posizione di mercato rivestita dal professionista (accade, infatti, di frequente che si faccia esplicito riferimento a ben specifici obblighi di diligenza che debbano gravare su un operatore, di primaria importanza nel suo specifico settore di attività).
Quanto poi alla determinazione della scorrettezza, non è richiesta ai fini della stessa l’avvenuta lesione agli interessi dei consumatori, quanto, piuttosto, che una determinata pratica sia anche solo capace di produrla.
Il consumatore medio appare, dunque, il baricentro della disciplina delle pratiche scorrette.
In conseguenza di ciò, non potranno essere sanzionabili le pratiche commerciali il cui impatto sia non «rilevante» o «trascurabile» .
Dato questo primo quadro di ordine generale occorre sottolineare come, allorquando si parli di pratiche scorrette, si debba procedere poi a distinguere le pratiche c.d. “ingannevoli” da quelle c.d. “non trasparenti”.
Le pratiche ingannevoli.
La normativa in materia distingue tra ipotesi di azioni ingannevoli ed omissioni ingannevoli .
L’azione ingannevole può tradursi nella comunicazione: a) di «informazioni non rispondenti al vero»; b) di informazioni che, «seppure di fatto, corrette in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio»; cioè di informazioni vere, presentate in modo da trasmettere un messaggio non vero. In entrambi i casi, requisito per il giudizio di ingannevolezza è anche l’essenzialità dell’errore indotto.
Più complessa è l’altra categoria delle omissioni ingannevoli, sebbene si ritiene che possano essere ricomprese tra le stesse tutte quelle censure di «informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole di natura commerciale» come, ad esempio tutte le caratteristiche del caso.
Le pratiche commerciali non trasparenti
La disciplina della pubblicità ingannevole vieta la pubblicità non «chiaramente riconoscibile come tale» (art. 5, d.lgs. n. 145/07).
Il difetto di trasparenza è elemento considerato dall’art. 22 Codice del Consumo, per il quale si considera non trasparente un’omissione ingannevole quando un professionista … non indica l’intento commerciale della pratica stessa qualora questo non risulti già evidente dal contesto». Una specifica forma di non trasparenza è però prevista nella black list delle pratiche ingannevoli, all’art. 23, lett. m), per cui «salvo quanto previsto dal d.lgs. 31.07.05, n. 177, e successive modificazioni, impiegare contenuti redazionali nei mezzi di comunicazione per promuovere un prodotto, qualora i costi di tale promozione siano stati sostenuti dal professionista senza che ciò emerga dai contenuti o da immagini o suoni chiaramente individuabili per il consumatore».
Il difetto di trasparenza può, però, riguardare anche aspetti riguardanti il professionista quali «la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, ivi compresa la sua identità».
Le pratiche aggressive
Secondo l’art. 24 Codice del consumo, «è considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, compreso il ricorso alla forza fisica, limita o è idonea a limitare in misura considerevole la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio inducendolo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».
Le pratiche commerciali aggressive si caratterizzano, dunque, per un elemento di carattere strutturale, rappresentato da quegli atti che consistono in molestie, coercizioni, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, e per uno di carattere funzionale, rappresentato dalla capacità della pratica di indurre attualmente o potenzialmente il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che egli non avrebbe altrimenti preso.
Elemento essenziale è allora quello definito come «indebito condizionamento», inteso come «lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, così da riuscire a limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole».
L’intento del legislatore, anche in questo caso è risultato essere quello di elevare il livello di tutela dei consumatori di fronte a determinate pratiche considerate particolarmente gravi. In tali casi, il riscontro della scorrettezza prescinderebbe, perciò, da ogni apprezzamento circa la sussistenza dei requisiti previsti per la valutazione generale di scorrettezza, di aggressività, e, segnatamente, della contrarietà alla diligenza professionale, dell’idoneità ad ingannare o condizionare, di quella ad influenzare il comportamento economico del consumatore medio.
La competenza generale ad applicare la disciplina delle pratiche scorrette è stata incardinata presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (meglio conosciuta come Antitrust), ritenendosi tale modello come il più idoneo alla promozione della tutela del buon funzionamento del mercato.
L’Autorità all’esito dell’istruttoria può non solo richiedere che il professionista ponga fine all’infrazione, cessando la diffusione della pratica o modificandola, anche attraverso l’adozione di una dichiarazione formale di rettifica, ma, ben può arrivare ad irrogare sanzioni amministrative pecuniarie che vanno da 2.000 euro fino a 500.000 euro in base alla gravità e alla durata della violazione o disporre, in caso di reiterata inottemperanza ai provvedimenti sanzionatori disposti, la sospensione dell’attività di impresa fino a 30 giorni.
avv. Luca Bellezza – luca.bellezza@firenzestudiolegale.it
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